pubblichiamo in anteprima per gentile concessione della rivista
Andrea Margheri I venti di terrore e di guerra che sconvolgono il mondo dalla tragedia dell'11 settembre non conoscono pause, non lasciano isole di tranquillità e di certezza. Dall'economia ai laboratori scientifici, dai palazzi dei governi alla vita quotidiana dei cittadini, tutto è sottoposto a cambiamenti radicali e dall'esito incerto. E il cambiamento più radicale e rapido si manifesta ovviamente nelle coscienze e nel pensiero degli individui e delle collettività organizzate. La storia dell'ultimo decennio è stata definita il nuovo disordine mondiale del dopo guerra fredda. È un assemblaggio globale di accordi continentali e di sanguinosi conflitti locali; di rapidissimo e meraviglioso sviluppo tecnologico e di terribile arretratezza; di ricchezza e di fame; di incontrollati processi finanziari sovranazionali. Un assemblaggio globale che ha colpito e ridotto il ruolo, il potere e la legittimità degli stati nazionali. Ad essi non poteva sostituire alcuna forma solida e riconosciuta di governo mondiale. L'egemonia economica e militare della super potenza, gli Stati Uniti, si è sempre manifestata, infatti, come funzionamento automatico dei mercati e dell'economia, come invasione dei marchi commerciali, come insieme di valori culturali indotto dal modello di consumi: al di fuori, quindi, di un pensiero politico organizzato e preciso. Gli stessi centri propulsivi dell'economia globale, radicati nel capitalismo Usa, patria della sola moneta di scambio e di investimento multinazionale, hanno sempre mostrato grande indipendenza anche dal potere politico federale degli Usa, sfociata qualche volta in aperta ostilità. Delle autorità sopranazionali, ovviamente, non hanno mai tenuto alcun conto, se non in quanto generatrici di flussi finanziari come incentivi agli investimenti. L'economia, nella fase contemporanea della globalizzazione, procedeva come se il funzionamento dei mercati finanziari fosse la legge suprema e avesse relegato definitivamente in un angolo la politica, assumendo in pieno il ruolo di unico regolatore della vita dei popoli e degli Stati. A sua volta la politica degli stati nazionali subiva questa condizione di subalternità e non riusciva più a rappresentare e governare il groviglio di contraddizioni, di bisogni, di attese che si esprimevano nella differenziata e tumultuosa realtà dei cinque continenti. A questa condizione di debolezza dei governi ha corrisposto in alcune zone (in primo luogo nell'Unione Europea), un tentativo organico di avviare forme di integrazione sovranazionale per garantire finalmente la pace e la sicurezza. Altrove, è stato un succedersi di conflitti locali nazionali, etnici e religiosi sanguinosissimi. Oppure si è avuta una privatizzazione della guerra: la violenza non più come monopolio statale, ma come strumento operativo di movimenti religiosi, di clan, di tribù, di organizzazioni criminali. L'Europa è stata sempre nel cuore della contraddizione: gli stati-nazione che la compongono hanno fondato la loro democrazia su un patto politico realizzato in forme diverse e originali tra le classi dirigenti, il mondo del lavoro e l'intera cittadinanza. È il frutto riconosciuto del secolo socialista e del processo riformatore del Novecento: esso ha resistito a due guerre mondiali. La crisi degli Stati e della politica nelle relazioni sovranazionali ha rimesso in discussione le condizioni concrete di quel patto. Ora il processo di integrazione apre una possibilità di rifondarlo su nuove basi unitarie, di dare alle diverse esperienze del Welfare e di democrazia economica una forma unitaria più stabile. Ma questo scenario complesso e contraddittorio della globalizzazione è stato spazzato via dai piloti suicidi dell'11 settembre. La politica è stata richiamata alle armi dall'angolo in cui era stata cacciata, ha ripreso posto al centro della scena per guidare la guerra asimmetrica contro il terrorismo globale. Questo terrorismo non è nato nei covi di ribelli disperati, difensori di una causa nazionale o etnica. Esso è una rete mondiale forte di tanti segmenti: di pezzi di apparati statali e militari, di servizi segreti, di imprese energetiche, industriali, commerciali e finanziarie, di tribù storicamente radicate e coese che hanno conquistato il potere in Stati ex-coloniali; di criminalità organizzata. Quando si leggono i documenti della realtà pachistana o saudita, delle relazioni complesse di tali realtà con la storia afghana degli ultimi decenni, ci si rende conto che Bin Laden è al vertice di una struttura gigantesca, fortemente internazionalizzata, dotata di risorse economiche legali e criminali immense, capace di scatenare una guerra privata e tecnologicamente sofisticata contro la superpotenza americana. Il movimento religioso, l'Islam, è terreno di intervento, a volte strumento operativo, di pressione politica e di organizzazione del consenso internazionale. La rete è altro: è la creazione superstatale di un potere economico e militare sovranazionale, deciso a stabilire la sua egemonia. Il volo dei piloti suicidi, dunque, ha colpito tragicamente l'America, e, insieme, ha fatto crollare - sia nelle relazioni tra i popoli, sia all'interno di ogni società - le speranze di sviluppo democratico e pacifico, di convivenza e collaborazione tra civiltà diverse, di dialogo tra le religioni e le culture. Il terrorismo globale è il nemico mortale della speranza di cambiare il mondo attraverso la democrazia, la lotta per la pace, le riforme, la convivenza nelle società multietniche e multiculturali. Il terrorismo di Bin Laden e degli altri capi più o meno occulti della rete accantona violentemente il dibattito sul governo della globalizzazione e le sue contraddizioni e spegne la luce sugli sforzi di trovare soluzioni condivise ai grandi problemi del mondo: in una parola, rischia di uccidere la politica come modello di convivenza. E più che in nome di un ordine religioso ed integrista, in cui religione e Stato si identifichino, come appare dalle sue abili, lucide e modernissime mistificazioni ideologiche tese a conquistare il consenso delle grandi masse di poveri del mondo islamico, esso agisce in concreto nell'interesse di un potere privatizzato deciso ad attuare una sanguinaria prevaricazione sulle società islamiche e sul mondo intero. La politica dei democratici di tutto il mondo non può oggi che sostenere con fermezza e determinazione questo conflitto. Quale forza democratica e progressista potrebbe tirarsi indietro senza compromettere i suoi valori basilari, la sua stessa ragione d'essere? Misurare gli eventi con il metro della maggiore o minore simpatia per gli Usa è proprio roba del secolo scorso. Gli storici già si sono incaricati di far emergere la realtà complessa del grande Paese, nato dalla prima rivoluzione democratica, che è parte così rilevante della civiltà in tutti i campi e in ogni remota regione. I meriti immensi della democrazia americana si sono intrecciati con scelte e comportamenti dalle conseguenze nefaste per il mondo intero; esiti che la sinistra e il socialismo non hanno potuto e non possono condividere ed accettare. Ma, ripeto, tutto questo resta sullo sfondo di uno scontro che investe direttamente, senza alcuna mediazione, la sinistra democratica e socialista. Oggi dobbiamo sentirci al fianco degli americani, degli inglesi e di tutti coloro che nel mondo - dalla Russia alla Cina - conducono la battaglia contro il terrorismo globale. E sentirci anche al fianco dei popoli arabi e islamici, che in gran parte hanno fatto una scelta convergente, consapevoli che le loro prospettive di sviluppo economico e sociale sono ormai sempre più strettamente interdipendenti a quelle delle altre aree del pianeta. Nello scontro si profila il rischio di diventare meno liberi e più poveri, di vedere ridotti gli spazi della democrazia e si profila, altresì, il rischio di non riuscire a fare avanzare la collaborazione economica contro la fame e la sofferenza, le ingiustizie globali. Due rischi strettamente intrecciati. Del primo abbiamo avuto sintomi precisi in Italia: da un punto di vista culturale sono sintomi veramente preoccupanti. Denunciano un male oscuro dei gruppi dirigenti del Paese che sinora, dall'opposizione, non si era manifestato con tanta virulenza. Ora, di fronte al mutamento drammatico degli scenari mondiali appare, invece, come un pericolo serio. Il primo sintomo sta nel tentativo di misurare la storia sulla base di uno schema inadeguato e, oggi, parziale e unilaterale: amici o nemici degli Usa. Berlusconi, in questo, è stato speculare a Casarini e soci. Nel mondo, lo è stato rispetto a tutti coloro che, dietro la falsa coscienza delle formule tipo in fondo se lo sono meritato, finiscono per distorcere il significato reale dello scontro epocale che si è aperto. Ma da quello schema distorcente si è via via estratto un veleno più pericoloso: l'ideologia della civiltà superiore minacciata dai barbari. Un veleno che giustifica la generalizzazione dello scontro armato e non consente di circoscrivere le operazioni militari ai segmenti della rete terroristica via via individuata.Ha incominciato Berlusconi nell'imbarazzo dei governi alleati. Ma hanno poi pesato gli scritti di Panebianco, Fallaci, Galli Della Loggia, Sartori. Ancor più ha pesato l'attitudine subalterna di un'opinione pubblica di centrodestra che non cela il suo finalmente c'è qualcuno che dice la verità ed innalza, più per rassicurarsi che per agire, la bandiera americana. Il male oscuro è la vocazione radicata alla subalternità miope e deresponsabilizzante. Una vocazione che si intreccia con riflessi da hooligans e da stadio, come quelli che porteranno forse a una manifestazione di Forza Italia concepita come divisione e non come prova di coesione e di forza del fronte antiterroristico. Le correnti di opinione che attraversano gli attuali gruppi dirigenti italiani si connettono alle opinioni diffuse che per combattere la guerra asimmetrica è necessaria soprattutto la militarizzazione dei rapporti tra gli Stati e delle stesse società democratiche. I falchi, per fortuna non stanno prevalendo. Colin Powell è sinora riuscito a bloccare Cheney e compagni che più volte hanno minacciato dal vertice degli Usa l'allargamento della guerra; la stessa politica degli Usa verso la questione palestinese ha subito un'evoluzione in direzione di un maggior equilibrio nella ricerca di uno spiraglio di pace nel durissimo scontro in atto. Russia e Cina hanno fatto della questione la base del loro accordo con gli Stati Uniti, chiedendo interventi mirati e condizionati dalle preoccupazioni umanitarie. Dall'Europa democratica non poteva venire altro messaggio. Ma se nella vicenda politica e militare ci sono le forze per sconfiggere i nuovi crociati, i falchi della guerra generalizzata, la cultura che li anima va affrontata alla radice, in profondità, dove invece rischia di alimentarsi delle paure, delle incertezze, dei rischi concreti. E qui interviene il secondo elemento chiave della battaglia di quanti credono nella civiltà del dialogo. Di quanti credono, cioè, che la lotta al terrorismo prosegua necessariamente come convivenza, confronto pacifico ed anche collaborazione tra culture e religioni diverse nelle relazioni tra i popoli e all'interno delle nuove nazioni multietniche. Civiltà del dialogo è anche e forse prioritariamente nuova globalizzazione, economia della collaborazione e dello sviluppo dei più poveri, governo politico della lotta alla fame e alle povertà. Nessuno, infatti, deve scegliere sulla base della disperazione sua e della propria famiglia. Per questo, un'idea policentrica e collaborativa della politica industriale e finanziaria è condizione e fondamento della nuova grande alleanza tra i popoli e gli statinazione, così come è condizione della formazione di vere autorità sopranazionali a partire dalla riforma e dal rilancio dell'Onu. La politica, richiamata bruscamente al suo posto di comando dallo scontro armato, dovrà ritrovare sul terreno economico e sociale l'integrità del suo ruolo. Dovrà creare al più presto le condizioni per l'isolamento e la definitiva scomparsa del terrorismo. Tali condizioni hanno un nome: sviluppo. Finché la politica della legittima difesa contro il terrorismo non proseguirà con i mezzi della cooperazione economica, industriale e commerciale a vantaggio delle aree povere del mondo, fino a quando non si costruiranno istituti di governo mondiale dell'economia per la lotta alla fame ed all'arretratezza, la grande alleanza contro il terrorismo potrà vincere solo singole battaglie. La coalizione, certo, resterà prigioniera, con l'umanità intera, di una contraddizione mortale, terreno permanente di riproduzione e di radicamento della minaccia terrorista globale. Questa nuova economia del dialogo dovrebbe mutare l'atteggiamento dei governi, così come dovrebbe trasformare le politiche dei movimenti no-global. In questa prospettiva il socialismo internazionalista europeo, radicato storicamente nel mondo del lavoro, deve esprimere una sua originale cultura dello sviluppo, dell'impresa, del mercato, dell'innovazione. Una cultura che sappia vedere, insieme, rischi e opportunità globali del paradigma post-fordista. Il problema è garantire lo sviluppo di mercati competitivi all'interno di un quadro di regole e di obiettivi strategici, che nel loro insieme costituiscano i primi elementi di un governo mondiale dei processi economici contro ingiustizie e fame.Questo equilibrio tra il mercato e il potere politico non è solo un nodo centrale dei governi riformisti, ma anche il contenuto delle dottrine economiche più innovative come quelle di Amartya Sen. Su questo terreno è necessario coraggio e determinazione anche nella sinistra democratica e socialista italiana. Sarebbe davvero un suicidio se nei prossimi mesi la grande sfida ideale e programmatica non venisse raccolta. |